Il quadro degli interventi angioini, che a partire dal 1266 modificarono radicalmente l’assetto urbanistico della città, trova nel San Marciano uno dei capisaldi del programma di pianificazione allorché, concessa che fu ai castellani di Roio l’edificazione di un nuovo tempio intra moenia, veniva organizzandosi uno dei brani urbani più significativi, restituito poi nel tempo nelle forme che oggi ammiriamo.
La vicenda evolutiva della chiesa si articola lungo il corso di sei secoli che lasciano leggere, nell’attuale corpo di fabbrica, le numerose distruzioni e ricostruzioni di cui la città fu costantemente provata per via dei dolorosi terremoti. Non v’è dubbio circa la presenza dell’edificio alla data del 1259, anno della distruzione totale di L’Aquila per mano dello svevo Manfredi; resta comunque aperto un dibattito…
Il quadro degli interventi angioini, che a partire dal 1266 modificarono radicalmente l’assetto urbanistico della città, trova nel San Marciano uno dei capisaldi del programma di pianificazione allorché, concessa che fu ai castellani di Roio l’edificazione di un nuovo tempio intra moenia, veniva organizzandosi uno dei brani urbani più significativi, restituito poi nel tempo nelle forme che oggi ammiriamo.
La vicenda evolutiva della chiesa si articola lungo il corso di sei secoli che lasciano leggere, nell’attuale corpo di fabbrica, le numerose distruzioni e ricostruzioni di cui la città fu costantemente provata per via dei dolorosi terremoti. Non v’è dubbio circa la presenza dell’edificio alla data del 1259, anno della distruzione totale di L’Aquila per mano dello svevo Manfredi; resta comunque aperto un dibattito sull’effettiva corrispondenza tra l’originaria fabbrica e l’attuale che, con buona probabilità, dovè abbandonare quel sito per rispondere ai dettami del piano angioino impostato ai criteri compositivi del locale. Reggono la tesi di una preesistenza duecentesca i resti che ancora oggi racchiudono l’orto della canonica alle spalle dell’altare maggiore, frammenti di un presbiterio e di un invaso absidale di gusto squisitamente medioevale.
Eretta Capoquarto nel 1276, divenendo uno dei poli nodali di quell’affascinante sistema relazionale che andava affermandosi alle soglie del XIV secolo, costituì un riferimento logistico primario e dovè, per conseguenza, assumere una conformazione di notevole riguardo tanto dimensionale quanto architettonica se alla data del 1703 le cronache parlavano del crollo di una chiesa straordinariamente bella e di gran lunga più ampia dell’attuale.
Il ciclo dei rifacimenti settecenteschi, concluso che fu con buona approssimazione non prima degli anni ’40 del XVIII secolo, segue le fasi di una ricostruzione indirizzata ad affermare i caratteri stilistici della nuova plasticità tardobarocca nel solo spazio interno, lasciando che all’esterno -come altrove in città- i segni di tanta tensione plastica restino imprigionati nelle forme severe dell’originaria fronte trecentesca, organizzata in un lapideo quadrangolo forato in asse dallo scultoreo portale al primo ordine e dal rigoroso finestrone circolare all’ordine superiore.
Del San Marciano secentesco, che il terremoto del 2 febbraio 1703 rese un cumulo di macerie, conosciamo i caratteri di una spazialità interna tra le più prestigiose del panorama cittadino -a giudicare dalle cronache artistiche dell’epoca- risultato di una reinvenzione tipicamente barocca dell’impianto medioevale che si concentrò nell’articolazione del piedicroce attraverso profonde nicchiature pseudo-cappellari ospitanti altari di pregevole fattura, sviluppando poi il programma nell’ampio transetto e delle absidi.
Il progetto di ricostruzione post sisma, pur prevedendo il rialzo dell’involucro murario sul superstite basamento dell’impianto precedente, ridusse notevolmente lo sviluppo longitudinale della preesistenza richiudendo lo spazio all’altezza dell’originaria intersezione tra l’aula e il transetto, in luogo di un più ampio programma -che certamente dovè prevedersi per via degli attacchi lasciati a vista sul retro in corrispondenza dell’orto- ampliato nella riedificazione della nave trasversa, cupolata all’incrocio con quella longitudinale, del presbiterio e dell’abside.
Ciò nonostante la soluzione architettonica interna può ritenersi compiuta nella conformazione di uno spazio coerentemente modellato, organizzato eminentemente nella scansione parietale affidata a grandi paraste corinzie binate sulle quali corre tutt’intorno la trabeazione a segnare l’attacco di uno splendido soffitto ligneo dipinto.
Scuole diverse impegnarono il cantiere settecentesco a giudicare dalle sfumature stilistiche che restano comunque evidenti nonostante il risultato sufficientemente unitario lasci supporre un’unica firma. Una prima scuola, romana, da leggersi con estrema chiarezza nelle disposizioni architettoniche dell’impianto generale, ed una seconda, nordica, più barocca nell’accezione settentrionale del movimento, leggibile nella diversa tensione plastica dei partiti decorativi racchiusi all’interno delle riquadrature parietali.
Stilisticamente ascrivibile alla prima è l’impalcato plastico nel disegno del capo altare sulla parete di fondo al di sotto del cieco arco trionfale, nel quale restano leggibili i segni di un’azione tipicamente borrominiana che si anima in tre edicole, riquadrate a stucco, su eleganti mensole a coronamento circonflesso invertito. In atteggiamento dialettico con il ricercato sistema di soluzioni architettoniche si svolge l’imponente palco di cantoria in controfacciata, stilisticamente articolato nel vivido intaglio policromo verde-oro delle preziose riquadrature del parapetto e dei sottostanti confessionali ed esploso nella raffinata ornamentazione del castello delle canne dell’organo, opera attribuibile ai maestri di Pescocostanzo.