A.D. 1646. Concesso che fu alla Confraternita del Suffragio, fino a quella data ospitata all'interno di uno dei vani dell'adiacente San Biagio, il diritto all'edificazione di un spazio proprio, si apre la vicenda di una delle chiese che, ancora oggi, concorre alla definizione del brano urbano immediatamente a ridosso dell'area della Cattedrale lungo il fianco settentrionale. Benchè trattasi di edificio minore, la vis aedificatoria del primitivo San Giuseppe dei Minimi resta incisa nel continuo rimando alle origini di uno spazio estremamente caratterizzato da un punto di vista tanto architettonico quanto geografico, intimamente legato alla vicenda storica dei suoi fondatori impegnati in una ri-edificazione post sima 1703 su un diverso sito, a svantaggio di un'azione ricostruttiva fondata sul principio di conservazione delle preesistenze, conclusasi nell'erezione del maestoso tempio…
A.D. 1646. Concesso che fu alla Confraternita del Suffragio, fino a quella data ospitata all'interno di uno dei vani dell'adiacente San Biagio, il diritto all'edificazione di un spazio proprio, si apre la vicenda di una delle chiese che, ancora oggi, concorre alla definizione del brano urbano immediatamente a ridosso dell'area della Cattedrale lungo il fianco settentrionale.
Benchè trattasi di edificio minore, la vis aedificatoria del primitivo San Giuseppe dei Minimi resta incisa nel continuo rimando alle origini di uno spazio estremamente caratterizzato da un punto di vista tanto architettonico quanto geografico, intimamente legato alla vicenda storica dei suoi fondatori impegnati in una ri-edificazione post sima 1703 su un diverso sito, a svantaggio di un'azione ricostruttiva fondata sul principio di conservazione delle preesistenze, conclusasi nell'erezione del maestoso tempio del nuovo Suffragio e nell'abbandono del vecchio, piccoplo oratorio.
Assumendo a parametro dimensionale gli spiccati degli altari marmorei quivi installati dal Ferradini e il Pedatti nel 1701, e rimontati poi nella nuova chiesa del Suffragio sulla Piazza del Duomo, la vecchia fabbrica dei confratelli fu certamente edificio di non trascurabile ampiezza sebbene sviluppantesi nell'articolazione di tre sole cappelle, compresa l'absidale, attorno all'aula centrale.
Questo impianto secentesco fu gravemente lesionato e deteriorato nel 1703, allorché il sisma rese in rovine l'adiacente isolato, inaugurando un periodo di estrema decadenza dell'edificio, incentivato, non ultimo, dal trasferimento della sede nei nuovi locali di piazza. Il 1770 segna il giro di boa di tanta desolante circostanza attraverso la ratifica di cessione degli spazi alla Confraternita di San Giuseppe dei Minimi, incipit, questo, all'avviarsi di una intensa opera di ricostruzione conclusasi nel primo decennio del XIX secolo. Del disegno precedente -relativo quindi all'organismo ante sisma- appare improbabile ricostruire i caratteri compositivi, pur deponendo a favore di una magniloquente architettura da sostenersi attraverso l'analisi degli organismi decorativi dei sopra citati altari, a giudicare dai quali, non v'è dubbio, dovè trattarsi di edificio fortemente evocativo della migrazione stilistica del registro manierista di influsso romano verso le forme della nuova plastica barocca. Coevi esempi in città di questo delicato passaggio al vertice restano incisi nel San Filippo, piuttosto che nel Gesù o nel Sant'Antonio de Nardis, a vantaggio di una più lucida ricucitura in chiave architettonica del panorama edificatorio dell'epoca.
L'esperimento tardobarocco, cui volse la ricostruzione, si estrinseca nelle forme dell'odierna articolazione spaziale limitatamente all'interno, ad ogni modo incompiuto nell'accecamento dell'invaso cupolare, deponendo così a sostegno della restituzione di un altro significativo esempio di Settecento maturo aquilano. Dell'originaria fronte, la cui conformazione plastica organizzava il proseguo dello spiccato absidale del San Biagio, non restano segni visibili, eccezion fatta per il piccolo corpo del campanile dal coronamento circonflesso. Attribuita all'aquilano Francesco Leomporra, detta facciata sulla via Roio potè vantare concorrenza nella grande epidermide lapidea del maestoso Suffragio e, seppur modesta nelle dimensioni, concorse -antecedentemente al restauro del Riccoboni nei primi anni del XX secolo- a restituire scorcio suggestivo d'angolo lungo il fianco settentrionale del San Massimo. L'attuale conformazione esterna, come spesso accade in città, non lascia intendere pressoché nulla dei caratteri precipui dello spazio intra; nella fattispecie, il rifacimento novecentesco volse interesse nell'accentuare, attraverso il reintegro in facciata di elementi murati in sito ed originariamente appartenuti alla duecentesca San Biagio, i caratteri della facciata absidale di quest'ultima ignorando, per conseguenza, il portato storico-stilistico di un intervento a questo posteriore. L'impaginato settecentesco, visibile ancora su vecchie foto, si organizzava nella scansione di tre partiti parietali a intonaco evidenzianti al centro il portale medioevale sormontato da una finestratura a mostre orecchiate e timpano curvilineo, per trovare conclusione nel profilo del tipico coronamento circonflesso. Oggi si presenta ai nostri occhi in veste di pietra con copertura a falde, una finestra circolare in luogo della settecentesca; sull'angolo di destra, in alto, svetta l'originario campanile.
L'aula interna, impostata su matrice rombica, si sviluppa spazialmente nell'espansione ellittica dell'involucro architettonico organizzato da paraste corinzie a definire cappelle ai vertici assiali, delle quali soltanto l'absidale resta fortemente incuneata, e concavi intercolumni di raccordo cui si articolano porte di comunicazione sormontate da tribunette a coronamento arcuato. I repertori d'ornato lasciano intravedere, al di là di una veste decorativa sufficientemente compiuta e quantomeno coeva, i segni di un'azione progettuale più vivace e pienamente barocca, per la quale 'meravigliare' è, nel costruito, parola d'ordine, e che qui non trova quello svolgimento fisiologico di cui restano testimoni in città alcuni esempi quali il San Luigi Gonzaga, l'Annunziata e la Santa Caterina d'Alessandria.
Resta oggi aperto un dibattito circa la paternità di tanta interessante architettura sacra. Non molto remota è l'ipotesi di una firma quale il Leomporra per l'inclinazione personale dell'aquilano a prediligere, nonostante i tempi in questione fossero maturi per la sperimentazione del nuovo registro neoclassico, repertori ancora legati ai temi del tardo barocco.