Nel quadro degli interventi urbanistici che interessarono la città di L’Aquila tra il Duecento e il Quattrocento, allorché il tessuto urbano andava aggiornando la sua configurazione affidata verosimilmente a pochi palazzi, piccole case, orti e botteghe artigiane, l’imponente volume della chiesa intus che fu concesso di edificare ai castellani di Bazzano, nella seconda metà del secolo decimoterzo, dovette costituire polo di riferimento dei percorsi viari ed emergenza architettonica per l’intero quartiere.
Eretta Capoquarto nel 1272, la Santa Giusta intra moenia è uno dei rarissimi episodi architettonici aquilani non interessato da profondi rifacimenti e pesanti ristrutturazioni nel corso dei secoli, a vantaggio di una più lucida lettura delle componenti originarie e degli interventi modificativi nell’organizzazione…
Nel quadro degli interventi urbanistici che interessarono la città di L’Aquila tra il Duecento e il Quattrocento, allorché il tessuto urbano andava aggiornando la sua configurazione affidata verosimilmente a pochi palazzi, piccole case, orti e botteghe artigiane, l’imponente volume della chiesa intus che fu concesso di edificare ai castellani di Bazzano, nella seconda metà del secolo decimoterzo, dovette costituire polo di riferimento dei percorsi viari ed emergenza architettonica per l’intero quartiere.
Eretta Capoquarto nel 1272, la Santa Giusta intra moenia è uno dei rarissimi episodi architettonici aquilani non interessato da profondi rifacimenti e pesanti ristrutturazioni nel corso dei secoli, a vantaggio di una più lucida lettura delle componenti originarie e degli interventi modificativi nell’organizzazione volumetrica.
L’esterno denuncia i caratteri propri dell’azione costruttiva tipicamente aquilana che, nel passaggio tra i secoli XIII e XIV, restituisce una delle più significative pagine della sua evoluzione edificatoria.
Tra le più suggestive del repertorio aquilano, la facciata principale, organizzata secondo chiari rimandi ad un partito di codici simbolici a tradurre il legame imprescindibile tra il terreno e il celeste nell’accezione di una spiritualità tutta medioevale, incide con vigore il brano urbano cui la chiesa si innesta e diviene elemento ordinatore del contesto con tale spiccata fierezza che le consentirà di bilanciare, seppur con diversa intenzionalità, la maestosa plastica del prospiciente palazzo Centi, culmine dell’architettura civile del Settecento. Interamente realizzata in pietra, di forma quadrangolare, affida ad una preziosa sequenza di archetti pensili di chiaro disegno romano-gotico l’attacco al cielo dell’intero impaginato in cui restano vive le pulsazioni plastiche del grande portale e dei raffinati ricami del rosone.
La trasposizione in chiave architettonica di tanta severa fattura trecentesca nello spazio interno è stata nel corso dei secoli via via lacerata nel susseguirsi di rimaneggiamenti e rifacimenti, alcuni dei quali post-sismici, tanto da giungere a noi nelle vesti di un tardo manierismo debolmente vocato alle complessità barocche. Il quadro delle modificazioni spaziali può ritenersi completo nel primo ventennio del Seicento, allorché furono conclusi i lavori per la realizzazione del poderoso palco di cantoria e la definizione delle cappelle laterali del piedicroce sul luogo delle originarie navi laterali. Da un punto di vista architettonico l’invaso spaziale della Santa Giusta intus traduce chiaramente il risultato di una serie convulsa di adeguamenti di carattere eminentemente funzionale, legati alle contingenze della classe gentilizia, e cifrate dagli architetti nel passaggio tra il XVI e il XVII secolo attraverso la revisione -in taluni casi radicale- delle coordinate fisiologiche della fabbrica antica a vantaggio di una più chiara interpretazione del gusto nascente. Il risultato è qui più che mai espresso nel momento in cui alla fuga prospettica delle grandi arcate medioevali, sottese alla restituzione della dominante longitudinale continuamente rimarcata nella suddivisione netta degli spazi all’intersezione col transetto e la ripresa delle absidi, si preferì la ricucitura del piedicroce in una modellata sequenza di cellule laterali a definire percorsi trattenuti e pausati da assi trasversi. Il pieno Seicento era alle porte. Si era pronti a incidere anche all’interno della Capoquarto -seppur limitatamente ai repertori d’ornato- i caratteri dominanti della nuova plasticità.
L’organismo medioevale, così ampiamente modificatosi nel corso dei secoli successivi, non fu distrutto nel 1703 seppur profonde furono le lesioni che il terremoto lasciò registrare. Nel programma di ristrutturazione post sisma, tra il 1730 e il ’35, non si tenne comunque conto della necessaria ricucitura stilistica dell’interno che riuscisse, quantomeno, a ricomporre le fila dell’intenzione protobarocca per trovare conclusione nell’adozione dei nuovi partiti settecenteschi, a pieno vantaggio della visione d’insieme, quanto piuttosto si preferì attuare una convulsa serie di intereventi -non ultimo l’oscuramento del rosone- il cui scadente portato estetico confluisce, ancora oggi, nella restituzione di un ibrido senza un definito e leggibile carattere.